La sicurezza di un sito web è fondamentale per proteggere i dati e le informazioni degli utenti e dei gestori.
Sappiamo (dalla ISO 27001 e dal GDPR in primis) che la sicurezza va declinata nelle sue proprietà: Riservatezza, Integrità e Disponibilità. Dunque, non solo è importante garantire la riservatezza dei dati, ma anche la loro integrità (esattezza, correttezza) e la loro disponibilità in tempi idonei laddove attraverso il sito web si fornisce un servizio a clienti effettivi e potenziali. Inoltre, l’indisponibilità del sito web a causa di un attacco hacker (attacco DDOS, defacement del sito web) comporta un grave rischio reputazionale per il suo proprietario.
In quest’articolo andremo a commentare le nuove revisioni delle due più importanti norme della famiglia ISO 27k, avvenute nel corso del 2022:
ISO/IEC 27001:2022 – Information security, cybersecurity and privacy protection — Information security management systems — Requirements
ISO IEC 27002:2022 Information security, cybersecurity and privacy protection — Information security controls
La seconda è stata anche pubblicata dall’UNI con il prefisso UNI CEI EN alcuni mesi fa, ma di fatto l’Ente di Normazione Italiano si è astenuto dal tradurre le 170 pagine di norma, limitandosi alla traduzione del titolo (“Sicurezza delle informazioni, cybersecurity e protezione della privacy – Controlli di sicurezza delle informazioni”) e poco più, lasciando molti delusi visto che la precedente versione era stata tradotta. Ora ci si aspetta la pubblicazione della UNI CEI EN ISO 27001 con traduzione in italiano che dovrebbe costare pochi sforzi viste le limitate differenze rispetto alla versione precedente e le similitudini con altre norme con struttura HLS. Aspettative che non dovrebbero andare eluse visto che la ISO 27001 è anche una norma certificabile.
La certificazione ai sensi dell’art. 42 del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (General Data Protection Regulation, GDPR) è un processo che dimostra l’impegno di un’azienda a proteggere i dati personali gestiti (ad es. dei propri clienti e dipendenti), relativamente ad un processo, prodotto o servizio.
La certificazione GDPR non è obbligatoria, ma può essere un’ottima opportunità per le aziende che desiderano dimostrare il loro impegno verso la conformità alle normative sulla protezione dei dati personali e, quindi, aumentare la loro reputazione sul mercato, magari accedendo, in un prossimo futuro, a gare di appalto particolarmente significative.
Il processo di certificazione GDPR prevede una valutazione dettagliata dei sistemi e dei processi di protezione dei dati dell’organizzazione da parte di un organismo di certificazione accreditato. Questo Organismo esaminerà le procedure interne dell’azienda, le tecnologie utilizzate per proteggere i dati e la formazione del personale in materia di sicurezza dei dati. Se l’azienda supera la valutazione, verrà rilasciata una certificazione che dimostra che il prodotto, processo o servizio dell’organizzazione oggetto di certificazione è conforme ai requisiti del GDPR.
Gli accordi fra Titolare del trattamento e Responsabile del Trattamento sono probabilmente uno dei punti più difficili da gestire nell’applicazione del GDPR, sia perché i requisiti del GDPR sono diversi dalla vecchia nomina del responsabile esterno del trattamento del Codice Privacy, sia perché le responsabilità, in capo sia al Titolare, sia al Responsabile sono più pesanti che in passato.
Spesso tale accordo è imposto dal Titolare al Responsabile che non gradisce e troppo spesso il Titolare evita contrasti con il Responsabile, magari fornitore già scelto da tempo, e desiste. In altri casi – come quelli dei colossi del web, fornitori di servizi cloud – il Titolare non ha nemmeno modo di discutere le clausole contrattuali dell’accordo per la protezione dati imposto dal Responsabile.
Molte imprese si sono trovate a dover nominare il Responsabile della Conservazione (RdC) per ottemperare ai requisiti delle nuove Linee Guida AgiD sulla conservazione dei documenti digitali. Tale adempimento non riveste, infatti, solo le Pubbliche Amministrazioni, ma tutte le imprese che utilizzano sistemi di conservazione “a norma” (archiviazione sostitutiva), compresi i sistemi di fatturazione elettronica, ormai divenuti obbligatori per tutte le organizzazioni.
In un precedente articolo abbiamo trattato della valutazione del rischio privacy per adempiere ai requisiti del GDPR (Regolamento UE 2016/679 sulla protezione dei dati personali), ma chi ha o deve implementare un sistema di gestione per la sicurezza delle informazioni come deve considerare la valutazione dei rischi sui trattamenti di dati personali? Tale valutazione è implicita nella valutazione dei rischi sulla sicurezza delle informazioni, ovvero è un “di cui” di essa? Oppure, come sostengono alcuni esperti di privacy, è tutta un’altra cosa e va considerata separatamente? Cerchiamo di chiarire questi aspetti.
Oggi le imprese tendono ad esternalizzare molti processi ed attività secondarie al fine di ottimizzarne i costi e la qualità del servizio risultante che, se svolto da personale specializzato, è spesso superiore a quello ottenibile impiegando il personale interno.
Alcune di queste attività – ad esempio la gestione delle paghe e del personale, l’acquisizione di documenti e dati in formato digitale e la relativa archiviazione sostitutiva, la gestione contabile e fiscale, i servizi informatici, ecc. – prevedono la gestione di informazioni critiche del punto di vista della riservatezza e degli aspetti legali e di compliance ad essi correlati.
Fin dagli albori dei sistemi qualità ISO 9001 (ma ai tempi era anche ISO 9002) la qualifica del fornitore è stato un elemento particolarmente significativo, da soddisfare anche attraverso la sottomissione ai fornitori di un questionario di (auto)valutazione e qualifica del fornitore che andava a valutare la sua organizzazione, le sue metodologie di assicurazione qualità e l’eventuale situazione rispetto alla certificazione di qualità (ISO 9001/ISO 9002/ISO 9003, certificazioni di prodotto, ecc.). Tali questionari avevano una loro ratio: se ben strutturati consentivano di valutare numerosi aspetti dei processi operativi del fornitore e spesso lo invitavano a migliorare i suoi controlli qualità. Chiaramente una visita in loco poteva sempre permettere al cliente di verificare la veridicità delle risposte fornite.
Nel corso degli anni i metodi di valutazione dei fornitori si sono evoluti, ma i questionari sono in parte rimasti, almeno per i fornitori di prodotti e servizi critici, magari affiancati da visite presso la loro sede o veri e propri audit di 2a parte.
Negli ultimi tempi questa modalità di valutazione è estesa ad altri settori: la privacy, la sicurezza informatica e la Sostenibilità, tipicamente declinata nei suoi elementi costituenti: Ambiente (Environment), Responsabilità Sociale (Social Accountability) e Governance, nota con l’acronimo ESG.
Purtroppo, grandi aziende hanno distribuito a pioggia questi questionari per valutare tutti i loro fornitori, senza distinzione.
Così molte aziende si sono viste recapitare (via e-mail) un questionario al quale devono tassativamente rispondere, ma non sanno come, soprattutto per quanto riguarda alcune domande.
Spesso, poi, le risposte ai questionari vengono valutate con algoritmi matematici, applicando metodi quali-quantitativi. In altre parole, ad ogni domanda bisogna rispondere con un SI o NO oppure con un Conforme/Parzialmente Conforme/Non Conforme, e così via. Ad ogni risposta è poi assegnato un punteggio (ed eventualmente un peso) che contribuisce al calcolo di un punteggio complessivo (spesso tramite una media pesata).
Dunque, troppe risposte negative o parzialmente negative possono portare ad escludere una PMI dall’Albo Fornitori di un cliente importante per aspetti non strettamente legati al prodotto/servizio fornito.
Ma andiamo ad esaminare le due principali tipologie di questionari:
quello dedicato alla Sostenibilità (ESG) e
quello dedicato alla Privacy (Data Protection secondo il GDPR, Reg UE 2016/679) ed alla Sicurezza Informatica (Cybersecurity).
I questionari sulla Sostenibilità riportano domande anche molto specifiche come, ad esempio, richieste sul calcolo della carbon footprint, delle emissioni di CO2 e/o monitoraggio dei consumi energetici.
Ovviamente a tali domande molte PMI, soprattutto quelle nel settore dei servizi, non sanno cosa rispondere, né pensano di implementare un sistema di misura e monitoraggio di tali elementi.
In molti contesti il questionario non dovrebbe essere applicabile: se il fornitore ha un basso impatto ambientale, non dovrebbe essere valutato su questi aspetti, in quanto non posso trattare allo stesso modo un fornitore di prodotti derivanti da un processo manifatturiero, un semplice rivenditore di prodotti e un fornitore di servizi di sviluppo software ed assistenza software e sistemistica. Se il fornitore appartiene a queste ultime tipologie, dovrebbe poter rispondere: “Caro cliente, siamo un’azienda di servizi che lavora in uffici neanche tanto vasti, il nostro impatto ambientale è limitato e più che cercare di fare la raccolta differenziata e di limitare i consumi energetici (già ridotti) non possiamo”. Del resto i valori di alcuni parametri sopra menzionati non avrebbero senso e non sarebbero comunque comparabili con aziende industriali.
Sugli aspetti Social dei questionari ESG, non ha molto senso richiedere il possesso di una certificazione nell’ambito della Responsabilità Sociale (SA 8000 o altri; ci sono diversi standard, forse troppi, nessuno standard ISO certificabile), soprattutto quando il fornitore non è a rischio di non rispettare i diritti dei lavoratori, soprattutto riguardo al lavoro forzato o al lavoro minorile.
Questi ultimi aspetti, viceversa, spesso risultano difficilmente applicabili a fornitori che producono in Paesi nei quali la normativa sul lavoro non è severa come nel nostro, anzi, lo sfruttamento dei lavoratori e il disconoscimento dei loro diritti è all’ordine del giorno.
In queste situazioni il tipico caso è quello dell’azienda A (grande azienda, anche multinazionale) vuole imporre criteri rigorosi di responsabilità sociale all’azienda B (il nostro fornitore che è un semplice rivenditore) che acquista i prodotti dall’azienda C, che è una grande azienda che opera in mercati del lavoro poco regolamentati (Asia, Africa…). L’azienda B può essere assolutamente compliance a tutte le norme applicabili in Italia e forse più, ma che controllo può imporre su fornitori di altri Paesi che controllano il mercato globale?
Lato Governance spesso viene richiesta l’attuazione di un Modello Organizzativo 231 (per le aziende italiane) che per certi settori non ha senso poiché la probabilità di incappare in uno dei reati previsti dal D.lgs 231/2001 è quasi inesistente. Idem dicasi per la nuova normativa anticorruzione (ISO 37001).
Al di là del consiglio di rispondere con serietà, competenza e massima trasparenza, sarebbe utile instaurare un canale di comunicazione con il cliente per evitare di essere fortemente penalizzati da un algoritmo di valutazione del questionario che non considera adeguatamente nel calcolo il settore di appartenenza del fornitore.
Passiamo al questionario sulla Privacy e/o sulla Cybersecurity.
Il questionario Privacy viene giustamente adottato per qualificare il responsabile (esterno) del Trattamento di Dati personali ai sensi dell’art. 28 del GDPR, ma non solo. Alcune organizzazioni che hanno molto a cuore la tutela dei dati personali che gestiscono, anche perché molto critici (dati sanitari, dati bancari, ecc.), lo mandano a chiunque ha un appalto di servizi. Starà poi al fornitore spiegare che magari il proprio software in cloud non tratta dati personali di cui il cliente è titolare, a parte i dati delle credenziali di accesso degli utenti e, pertanto, non potrà mai essere investito del titolo di Responsabile del Trattamento.
Se, viceversa, il fornitore tratta dati personali occorre fare attenzione ad alcune domande. Ad esempio, spesso il cliente richiede se il fornitore ha svolto una DPIA (valutazione di impatto sui dati personali), che in realtà è applicabile solo in alcuni casi. Ricordiamo infatti che la DPIA è dovuta, oltre ai casi esplicitamente previsti dal Regolamento UE 679/2016 e dalle indicazioni del nostro Garante Privacy, se un trattamento di dati personali – a seguito della valutazione dei rischi – presenta rischi elevati per i diritti e le libertà degli interessati.
Anche le domande sul DPO (RPD) dovrebbero prevedere la non applicabilità del requisito per determinati tipi di organizzazione, anche se la nomina di un DPO è comunque un’azione volontaria consigliabile in molte realtà.
Per quanto riguarda la nomina dei responsabili del trattamento (sub-responsabili per il trattamento che un fornitore effettua per un cliente titolare del trattamento) con adeguato accordo contrattuale, essa è un atto doveroso, ma è difficile ribaltare al sub-responsabile i medesimi requisiti contrattuali imposti dal titolare (cliente) al responsabile (fornitore). Immaginiamo ad esempio una società di servizi di elaborazione dati relativi alla gestione del personale che ha numerosi clienti che la hanno nominata responsabile del trattamento, ma che ovviamente utilizza il medesimo programma software per elaborare i dati di tutti i clienti ed ha un contratto con i fornitori del software (tipicamente in Saas, ovvero in cloud) unico con la nomina del fornitore del software a responsabile del trattamento. In tale situazione è difficile che tutti i requisiti, anche quelli particolari, coincidano con quelli richiesti dal cliente titolare del trattamento.
Poi ci sono le misure di sicurezza.
Spesso le check-list comprendono riferimenti a controlli estratti da linee guida ENISA, ISO 27002 e quant’altro di meglio c’è a disposizione. Peccato che talvolta queste misure di sicurezza non sono correttamente declinate.
Ad esempio, il controllo degli accessi logici e le regole di autenticazione non possono essere imposti tu cur dal cliente al fornitore: alcune regole come il cambio password ogni 3 o 6 mesi non ha senso richiederle come obbligo. Ci sono illustri pareri (NIST in primis) che sono contrari al cambio password frequente, a vantaggio di altre misure di sicurezza alternative (es. MFA con elevata complessità della password).
Dunque, sarebbe più corretto chiedere al fornitore quali policy di controllo degli accessi logici ha implementato e non accontentarsi di risposte del tipo: “per accedere ai sistemi informatici abbiamo imposto una password” … che vuol dir tutto e vuol dir niente.
Poi chiaramente il questionario dovrebbe concentrarsi sulle misure di sicurezza relative al trattamento che il fornitore fa per il cliente. Se il responsabile del trattamento fornisce un software i cloud (SaaS) non ha particolare rilevanza come effettua i backup dei propri dati gestionali internamente, ma è importante capire quali misure di sicurezza ha adottato il datacenter che ospita il servizio.
Stesso discorso vale per backup, anti-malware, firewall ed altre misure di sicurezza che dovrebbero essere commisurate all’attività effettivamente svolta dal fornitore per il cliente. Non basta affermare di disporre di queste misure di sicurezza, bisogna capire come sono applicate. Quando l’accesso del fornitore ai dati del cliente avviene sui database installati presso il cliente normalmente le misure di sicurezza importanti sono quelle implementate dal cliente stesso (regole di autenticazione, VPN per accessi dall’esterno, ecc.). In conclusione, occorre essere preparati per rispondere adeguatamente a queste richieste dei clienti e, se si ritiene di essere adeguatamente strutturati ed organizzati su questi aspetti, è opportuno cercare un dialogo con persone competenti appartenenti all’organizzazione del cliente. Nella
Il presente articolo ha lo scopo di riproporre un precedente articolo di questo sito, denominato “il costo vero del prodotto” rivisitato e corretto in ottica presente, con i nuovi fattori destabilizzanti che stanno influenzando i costi della maggior parte dei prodotti realizzati dalle aziende italiane.
Mi riferisco in particolare all’aumento dei prezzi della materia prima ed all’aumento dei costi dell’energia, già rilevati nel post-pandemia (o meglio post “prima ondata”), che ora – a causa della guerra in Ucraina – assumono valori non solo molto più elevati rispetto al passato, ma presentano anche una notevole variabilità nel breve periodo.
Ora tutte le aziende certificate ISO 9001 (e non solo) dovrebbero aggiornare la loro valutazione dei rischi, come previsto dalla norma, ma anche da buone prassi aziendali, per affrontare il futuro con consapevolezza.
Ad inizio 2022 il risk assessment non può prevedere solo aggiornamenti legati all’evoluzione della pandemia Covid-19, ma anche ad altri fattori che incidono profondamente sul contesto esterno delle nostre imprese: aumento dei costi dell’energia, aumento dei costi delle materie prime e di diversi componenti elettronici, legato strettamente alla carenza delle medesime materie prime e componenti. L’aumento dell’inflazione ed una probabile crisi dei consumi è una logica conseguenza di tutti questi fattori.