Valutazione del rischio per la sicurezza delle informazioni vs. valutazione del rischio privacy

In un precedente articolo abbiamo trattato della valutazione del rischio privacy per adempiere ai requisiti del GDPR (Regolamento UE 2016/679 sulla protezione dei dati personali), ma chi ha o deve implementare un sistema di gestione per la sicurezza delle informazioni come deve considerare la valutazione dei rischi sui trattamenti di dati personali? Tale valutazione è implicita nella valutazione dei rischi sulla sicurezza delle informazioni, ovvero è un “di cui” di essa? Oppure, come sostengono alcuni esperti di privacy, è tutta un’altra cosa e va considerata separatamente? Cerchiamo di chiarire questi aspetti.

Cos’è il rischio per la sicurezza delle informazioni?

Partiamo dalla valutazione del rischio per la sicurezza delle informazioni, ovvero essenzialmente per i sistemi di gestione certificati ISO 27001.

Prima di parlare di valutazione del rischio dovremmo soffermarci sulla terminologia: sicurezza delle informazioni non è “sicurezza informatica” e non è “cybersecurity”. Tralasciamo le discussioni sul termine cybersecurity (in italiano “sicurezza cibernetica”?) che per taluni equivale alla sicurezza informatica, per altri è la protezione delle informazioni digitali da attacchi informatici (non da incidenti naturali!), per altri ancora ha a che fare con la sicurezza degli appartai IT e OT…

La sicurezza informatica è un sottoinsieme della sicurezza delle informazioni? Dunque, la valutazione del rischio ICT è una parte della valutazione del rischio per la sicurezza delle informazioni?

Non è proprio così, ma quasi: la sicurezza informatica riguarda gli apparati ICT che normalmente trattano informazioni digitali. Ora un problema tecnico, dovuto ad un attacco informatico deliberato oppure ad un evento accidentale, comporta anche un rischio per la sicurezza delle informazioni? In teoria non è sempre così perché un attacco informatico ad una infrastruttura critica (ad es. un acquedotto o una rete elettrica) generalmente non comporta conseguenze sulla sicurezza delle informazioni, ovvero sulla sua declinazione in riservatezza, integrità e disponibilità. Perciò non costituisce un rischio per la sicurezza delle informazioni? Ma le apparecchiature informatiche e le infrastrutture ICT cosa trattano? Non trattano byte, ovvero informazioni? Facciamo un esempio su un fatto accaduto di recente: il blocco del traffico aereo alcuni giorni fa negli Stati Uniti è stato provocato da un incidente informatico, pare fosse colpa di un file “corrotto” (ma anche se fosse stato un attacco di hacker Russi, cosa che non ci diranno mai, la sostanza non cambierebbe): ebbene è considerato un incidente sulla sicurezza delle informazioni, ovvero si è concretizzato un rischio sulla sicurezza delle informazioni? Apparentemente no perché le conseguenze sono state il blocco dei voli con disagi per i passeggeri, maggiori costi per Compagnie Aeree e passeggeri e così via. Ma la causa di tutto questo non è stata la mancanza di informazioni (= mancata disponibilità di informazioni) sulla sicurezza dei voli che ha fatto prudentemente mantenere a terra molti aeromobili?

Ovviamente tutto dipende dal contesto in cui si trova l’organizzazione che deve valutare i rischi e qual è il campo di applicazione del sistema di gestione ISO 27001 che, nel caso, ci chiede la valutazione del rischio.

Il viceversa – ovvero che la sicurezza informatica non copra tutta la sicurezza delle informazioni – è dimostrabile in modo più semplice: le informazioni su supporto cartaceo devono essere protette e la loro protezione generalmente non riguarda la sicurezza informatica.

La valutazione del rischio sulla sicurezza delle informazioni

Fatta questa premessa andiamo ad esaminare cosa ci dice la teoria e la letteratura sul risk assessment per l’information security, ovvero per il SGSI ISO 27001.

In principio fu la vecchia versione della ISO 27005 a guidare queste valutazioni del rischio sulla sicurezza delle informazioni. In sintesi, questa norma ci diceva di partire dal censimento degli asset dell’organizzazione, di andare a vedere quali informazioni essi trattano (information asset) e, quindi, fare una valutazione del valore degli asset riguardo alle caratteristiche di sicurezza, ovvero riservatezza, integrità e disponibilità.

Poi occorreva identificare le minacce alla sicurezza delle informazioni (gli attacchi hacker, gli incendi, gli errori di configurazione dei sistemi, ecc.) e le vulnerabilità presenti negli asset (sistemi non aggiornati, assenza di protezione fisica del CED, mancanza di consapevolezza del personale, ecc.).

Una combinazione di questi elementi, ovvero una minaccia che sfrutta una vulnerabilità per far concretizzare un rischio su un determinato asset veniva ponderata in base alla probabilità di accadimento (in realtà viene usato il termine verosimiglianza) x la gravità delle conseguenze/danno potenziale x il valore dell’asset, al fine di ottenere un determinato livello di rischio quali-quantitativo.

Oggi l’ultima versione della medesima norma prende in considerazione due approcci:

  • Approccio basato sugli eventi: i rischi possono essere identificati attraverso le considerazioni della Direzione e il contesto dell’organizzazione. Questo permette di concentrare gli sforzi sui rischi più critici, senza disperdersi nella valutazione di numerosi rischi che poi giudicherò minori e non degni di essere considerati con azioni di trattamento.
  • Approccio basato sugli asset: i rischi possono essere identificati attraverso l’ispezione di asset, minacce e vulnerabilità. È quello già previsto dalla precedente edizione della ISO 27005.

Altri metodi di valutazione del rischio possono essere utilizzati, classificati in genere in metodi quantitativi (basati su un calcolo più o meno “preciso” del rischio, a fronte di valutazioni della probabilità matematica di accadimento dell’evento negativo e di valutazione quantitativa del danno, ad es. in termini economici) e qualitativi (il valore del rischio: “Alto”, “Medio”, “Basso”, ecc. non è espresso in valori assoluti, ma rappresenta solo un metodo di confronto fra i vari rischi).

In generale questi metodi qualitativi, secondo alcuni esperti, portano sempre ad un calcolo del rischio basato sulla formula:

r(m, a, v) ∝ p(m) ⋅ i(m, a) ⋅ g(v)

dove r rappresenta la funzione “rischio” che dipende da m= minacce, a= asset, v= vulnerabilità in modo proporzionale alla probabilità di accadimento della minaccia, all’I=impatto della minaccia sull’asset e alla g=gravità della vulnerabilità.

Un approccio completamente diverso, proposto da altri esperti, non prende in considerazione le minacce, ma parte dalle vulnerabilità presenti per determinare i rischi concreti che dovranno essere valutati attraverso la classica formula Rischio =Possibilità di accadimento x Gravità del danno o delle conseguenze provocate dal concretizzarsi del rischio.

Le fasi successive del processo di valutazione dei rischi, dopo la loro identificazione, sono sempre le stesse: analisi dei rischi, ponderazione dei rischi, scelta delle opzioni di trattamento, determinazioni dei controlli/contromisure necessari, confronto con i controlli dell’Annex A della ISO 27001 e definizione della Dichiarazione di Applicabilità (S.o.A.).

Tra i modelli disponibili per il calcolo del rischio sulla sicurezza delle informazioni secondo la ISO 27001 segnaliamo il tool VERA di Cesare Gallotti (https://www.cesaregallotti.it/Pubblicazioni.html ) che prevede l’identificazione di una serie di Minacce/Rischi per le quali sono attribuiti una probabilità di accadimento ed un impatto fino a costituire il c.d. “rischio puro” o “rischio intrinseco”. Quindi vengono stabilite le vulnerabilità che non sono altro che l’inversamente proporzionale ai controlli, ovvero all’efficacia degli stessi. Combinando il rischio intrinseco con le vulnerabilità/controlli si ottiene il valore del rischio calcolato sulla sicurezza delle informazioni. Tale modello comprende anche una parte legata alla privacy (comunque cogente anche in ambito SGSI) nella quale si valutano i soli rischi (minacce) attinenti alla privacy e le relative conseguenze.

Altri esperti definiscono il “rischio inerente” come il rischio derivante dalla combinazione di probabilità/possibilità di accadimento dell’evento e dalla gravità delle conseguenze. Applicando i controlli di sicurezza, ovvero le contromisure (le misure di sicurezza tecniche ed organizzative in termini privacy) si ottiene il “rischio residuo”, che dovrà poi essere confrontato con i criteri di accettabilità per stabilirne le opzioni di trattamento.

Altri schemi e standard prevedono valutazioni dei rischi sulla sicurezza ICT, che oggi costituisce parte preponderante della sicurezza delle informazioni. Gli approcci possono essere leggermente diversi, ma sostanzialmente non si discostano dalla seguente metodologia-

  1. Identifico le minacce che incombono sui sistemi e sui dati (es. virus ransomware o, più in dettaglio le tecniche che rendono possibile un attacco ransomware: phishing, social engineering, attacchi di forza bruta a siti web per la ricerca di credenziali di accesso, ecc.)
  2. Identifico gli eventi che, se si concretizza la minaccia, possono costituire un rischio per i miei dati
  3. Valuto le misure di mitigazione che sono state implementate per fronteggiare il rischio.
  4. Valuto la probabilità di accadimento dell’evento.
  5. Valuto l’impatto che comporta tale rischio per i dati e tutto quel che ne consegue.
  6. Calcolo il valore del rischio (residuo).
  7. Definisco le azioni di trattamento del rischio (accettare il rischio oppure adottare ulteriori misure di prevenzione o protezione per ridurre il rischio o addirittura eliminarlo.

La valutazione del rischio privacy

Quando si valuta il rischio relativo alla privacy, è possibile identificare minacce specifiche per la privacy. Tra di esse vi sono:

  • rappresentazione scorretta, se i dati relativi a una persona sono errati, oppure presentati o elaborati in modo non corretto possono provocare danni all’interessato; questa minaccia può anche riguardare i risultati della profilazione di una persona (che, ad esempio, potrebbe essere esclusa da programmi sanitari o economici), eventualmente anche con strumenti basati sull’intelligenza artificiale;
  • distorsione, ossia l’interpretazione volutamente o inavvertitamente scorretta dei dati, con potenziali impatti negativi sulla singola persona; questa minaccia è, in pratica, quella del pettegolezzo e della maldicenza, che può portare al biasimo, alla stigmatizzazione, all’isolamento e anche alla perdita di libertà di una persona;
  • sorveglianza, attraverso l’uso dei dati, soprattutto in ambito informatico; è necessario riconoscere la differenza tra logging (ossia la raccolta di dati per assicurare la sicurezza delle persone e della proprietà) e la sorveglianza (che porta, anche se non sempre per scelta deliberata, a discriminazione, perdita di fiducia, autonomia o libertà, danni fisici o materiali);
  • blocco alla conoscenza dei dati trattati, ossia segretezza in merito al fatto che i dati personali sono trattati e alle modalità con cui lo sono; questo può portare all’uso dei dati personali iniquo e, per le singole persone fisiche, alla mancanza di autodeterminazione, alla perdita di fiducia e a perdite economiche;

In pratica le minacce per la privacy potrebbero essere diverse da quelle per la sicurezza delle informazioni, o meglio alcune (la maggioranza) coincidono, altre sono differenti. Ma se consideriamo che l’informazione è anche un dato personale e che la stessa ISO 27001 comprende un controllo denominato “Privacy e protezione dei dati personali” (controllo A.18.1.4 della versione 2013 della ISO 27001-27002) capiamo bene che – nella valutazione del rischio per la sicurezza delle informazioni – dobbiamo considerare anche gli impatti che una determinata violazione di dati personali può avere sui diritti e le libertà dell’interessato e non solo sul business dell’organizzazione.

Dunque un medesimo evento rischioso, ad esempio un data breach sul portale web dell’azienda oppure un ransomware che non comporta un’esfiltrazione di dati (anche personali), ma “soltanto” un blocco dei sistemi per un paio di giorni, potrebbe portare ad una valutazione e, quindi, ad un indice (livello) di rischio differente semplicemente perché – a parità di probabilità di verificarsi dell’evento – l’impatto sui diritti e le libertà dell’interessato, piuttosto che sul business dell’organizzazione, può essere sensibilmente diverso.

Quindi la valutazione dei rischi potrebbe essere unica a patto di considerare i differenti effetti a fronte del verificarsi di medesimi eventi.

Naturalmente ogni organizzazione avrà i suoi parametri e le sue specificità: dal punto di vista dell’interessato: un conto è un blocco dei sistemi informativi per un paio d giorni di un Ospedale ed un conto è il medesimo blocco per un’azienda manifatturiera dove probabilmente il fatto di non poter accedere ai dati dei dipendenti per un paio di giorni non costituirebbe un gran problema (salvo che non sia il giorno di pagamento degli stipendi…).

Tuttavia, alcuni esperti della materia privacy potrebbero obiettare: ma per il GDPR devo valutare i rischi sui trattamenti di dati personali, quindi considerare i rischi per ogni trattamento! Allora bisognerebbe riprendere il concetto di “Asset” dove i dati personali (dei dipendenti, dei clienti, ecc.) costituiscono un “asset informativo” con un certo valore, dato dalla combinazione delle diverse caratteristiche di sicurezza (Riservatezza, Integrità e Disponibilità).

Spesso, però, si può semplificare considerando il caso peggiore (worst case), ovvero dato un determinato evento rischioso (ad es. un data breach sul portale web) consideriamo lo scenario peggiore per tutti i trattamenti di dati personali. Allora per i trattamenti dei dati personali dei dipendenti avrò un determinato impatto, mentre per i dati personali dei clienti avrò un impatto di tipo e valore diverso: nel nostro caso di esempio per l’Ospedale il rischio maggiore sarebbe sui dati dei pazienti e dei relativi trattamenti (es. prenotazioni, refertazione visite ed esami, ecc.), mentre per l’azienda manifatturiera il rischio più elevato sarà sui trattamenti dei dati dei dipendenti (elaborazione paghe, ecc.).

Evidentemente la valutazione del rischio privacy per ogni singolo trattamento di dati personali che abbiamo inserito nel Registro delle Attività di Trattamento (ai sensi dell’art. 30 del GDPR) potrebbe risultare parecchio oneroso e non giustificato per una medio-piccola organizzazione. È comunque sempre opportuno raggruppare più trattamenti sui quali incombono i medesimi fattori di rischio. Ad esempio in un’organizzazione che gestisce tutti i dati in formato digitale attraverso file di Office conservati in un file Server ed un unico applicativo gestionale è perfettamente inutile replicare le medesime minacce ed eventi di rischio legati all’IT su diversi trattamenti. Eventuali vulnerabilità o misure di sicurezza non completamente efficaci legate al controllo degli accessi degli utenti, agli strumenti anti-malware, ai backup o alla (scarsa) consapevolezza del personale impattano su tutti i trattamenti di dati personali e basterà considerare solo il caso peggiore, ovvero l’impatto di gravità più alta su tutti i trattamenti per “risolvere” il problema della valutazione del rischio privacy. Infatti, ai fini della protezione dei dati personali, il trattamento del rischio che andremo ad attuare sarà finalizzato a prevenire il rischio (abbassare la probabilità che la minaccia si concretizzi) oppure a proteggere il dato dall’evento che non può essere completamente evitato (ridurre la gravità dell’impatto), dunque miglioreremo la protezione dei dati personali su tutti i trattamenti effettuati.

In conclusione il problema non è pensare di coprire anche la valutazione del rischio privacy attraverso una valutazione più ampia sulla sicurezza delle informazioni, ma fare quest’ultima valutazione in modo incompleto, senza considerare nel modo corretto i rischi associati alla protezione dei dati personali.

Come spesso accade, se si fanno le cose per bene si può fare (quasi) tutto.

image_pdfCrea PDFimage_printStampa