Di questi tempi molti imprenditori, per diversi motivi, valutano se incrementare le proprie risorse attraverso l’assunzione di personale dipendente oppure attraverso altre forme di collaborazione con personale esterno.
Nel primo caso si può ricorrere non solo a contratti a tempo indeterminato, ma – come proprio in questi giorni si è tanto discusso – a forme di contratti a tempo determinato, con diversi vincoli e tempistiche.
Nel secondo caso, invece, esistono forme di collaborazione con contratti a progetto, co.co.co., collaborazioni occasionali oppure veri e propri contratti di consulenza con lavoratori autonomi in possesso di partita IVA.
Non volendo qui trattare tutte le situazioni intermedie che vanno dal contratto di dipendente a tempo determinato al collaboratore a progetto, ecc., le quali potrebbero anche essere suscettibili di diversa regolamentazione da qui a pochi mesi, concentriamo la nostra attenzione sul rapporto di dipendente a tempo indeterminato e di consulente con partita IVA, analizzandone pregi e difetti, soprattutto dal punto di vista dei costi.
Ipotizziamo che la nostra organizzazione abbia un incremento di lavoro che possa e debba essere colmato con il ricorso ad una professionalità specifica e che richieda un certo impegno continuativo per un determinato periodo di tempo.
Sul futuro, di questi tempi, non c’è certezza, per cui molte organizzazioni preferiscono crescere in modo “continuo e variabile/flessibile” attraverso consulenti a cui si possono richiedere giornate in più, ma anche in meno, piuttosto che con dipendenti in modo “discreto e fisso/rigido” con l’assunzione di nuovi dipendenti, magari anche part-time.
Domani probabilmente il sistema – al fine di favorire le assunzioni a tempo indeterminato – dovrà favorire economicamente in modo sempre più spinto il rapporto di dipendenza rispetto ad altre forme di collaborazione senza vincoli, ma oggi è davvero conveniente rivolgersi a lavoratori autonomi?
Affidare un incarico operativo, ad esempio per seguire il lavoro relativo ad una commessa o ad un progetto, ad un consulente o un libero professionista con partita IVA potrebbe essere un po’ una forzatura, sia perché questo tipo di rapporto non prevede vincoli di subordinazione rispetto a personale interno all’azienda, sia perché il ricorso – in alcuni settori – di collaborazioni continuative per la quasi totalità delle giornate lavorative a disposizione, costituisce un rischio rispetto alla regolamentazione sul lavoro.
Fatte salve tutte queste considerazioni, incaricare un consulente esterno di seguire una o più commesse o progetti piuttosto che affidare il compito ad un dipendente conviene?
Supponiamo di avere come riferimento un dipendente con determinate competenze e professionalità che costa, tutto compreso (Retribuzione Annua Lorda + Oneri Previdenziali e T.F.R.), circa € 50.000. Questo corrisponde ad una retribuzione netta di poco più di 24 mila euro all’anno (circa € 36.400 lordi) ovvero poco più di 2 mila euro al mese, esclusa 12esima e 13esima mensilità (su internet sono disponibili dei calcolatori al riguardo, che però dipendono da alcuni parametri differenti dal settore aziendale, alle dimensioni dell’azienda e al livello contrattuale dell’impiegato, ecc., oltre che variare con la legislazione nel corso del tempo).
Considerando le festività (variabili di anno in anno), circa 25 giorni di ferie e 6 giornate di malattia o infortunio “a forfait” durante l’anno, restano circa 220 giornate lavorative effettive, supponiamo di 8 ore. Nel nostro caso il dipendente ci costa € 227,27 al giorno, ovvero € 28,41/ora.
A parità di professionalità quanto dobbiamo proporre al nostro consulente con partita IVA? Occorre prima fare alcune considerazioni che spesso vengono dimenticate da molti imprenditori.
Dobbiamo distinguere il caso in cui il nostro consulente venga a lavorare all’interno della nostra organizzazione per tutto il tempo necessario a svolgere il lavoro per cui è stato incaricato, utilizzando quindi PC, stampanti/fotocopiatrici, telefoni ed altre risorse aziendali, oppure il caso opposto in cui svolge il proprio lavoro per la gran parte del tempo con suoi strumenti (notebook o desktop, telefono, ecc.) e viene nei locali aziendali solo per le riunioni e per presentare il proprio lavoro o quant’altro.
Nel primo caso, infatti, dobbiamo considerare il costo – occulto a molti – di una postazione di lavoro. Questo può variare molto da una realtà aziendale ad un’altra; se facciamo l’esempio di una società di informatica che sviluppa software o di una società di ingegneria che progetta opere, oltre all’occupazione di una scrivania attrezzata ed un’utenza sul sistema informativo aziendale (che per alcuni software gestionali può costituire un costo aggiuntivo) ed un PC con software di base e relative licenze (sistema operativo, antivirus, ecc.) potremmo avere, nel primo caso, il costo delle licenze per l’ambiente di sviluppo, nel secondo i costi delle licenze per software di disegno CAD e software di calcolo strutturale. Sono cifre non irrilevanti.
Oltre a queste considerazioni occorre pensare che un dipendente viene formato dall’azienda, non spenderà tutto il tempo a disposizione sulla commessa o progetto cui facciamo riferimento: passerà un po’ di tempo nell’organizzazione interna (riunioni generali, assistenza a colleghi, archiviazione documenti, ecc.) ed auspicabilmente in formazione. Tutte attività che il nostro consulente che lavora esternamente, presso il proprio studio o abitazione, non caricherà sul lavoro oggetto del contratto, ma che comunque dovrà in qualche modo esperire, magari in forma o modalità diverse; in ogni caso non sarà esentato da formarsi adeguatamente e mantenersi aggiornato nelle discipline di competenza. Egli avrà poi dei costi di struttura propri (manutenzione degli strumenti di lavoro, costi amministrativi e gestionali, ecc.) e dovrà spendere un po’ di tempo a promuovere la sua attività. Tali costi sono assorbiti dalla struttura dell’organizzazione nel caso del dipendente. Alla fine dei conti i costi giornalieri di un dipendente difficilmente sono tutti imputabili alle commesse lavorate, ma ci sarà una piccola percentuale imputata ad altre attività.
In sintesi non potremmo pensare di erogare al consulente la stessa cifra lorda con la quale remuneriamo il dipendente. È evidente che gli stessi 50.000 euro per un anno di lavoro o in proporzioni diverse, compresi gli oneri previdenziali (ipotizziamo un 4%) ed esclusi IVA (detratta da ambo le parti) potrebbero non essere sufficienti per un libero professionista che lavora internamente all’azienda, figuriamoci per un esterno che lavora con mezzi propri. Gli stessi 50.000 euro dati al consulente esterno diventano circa 27-28 mila euro netti in tasca al professionista o lavoratore autonomo che sia. I circa 3 mila euro in più rispetto al lavoratore dipendente non saranno sufficienti al consulente per remunerare adeguatamente il proprio lavoro e la propria professionalità.
Allora per un anno di lavoro continuativo, ovvero 220 giornate di lavoro effettive, potranno bastare – in determinate situazioni – solo € 250 al giorno, ovvero € 55.000 l’anno, dunque il 10% in più di un dipendente.
È chiaro che sostituire un impiegato da circa 1.750 euro netti al mese su 14 mensilità (come si evince dalle ipotesi iniziali sopra formulate), che probabilmente – con queste cifre – non avrà un livello contrattuale molto alto in una società di servizi, con un consulente che svolge lo stesso lavoro internamente con un costo di circa 55.000 euro l’anno non ha molto senso, anche per i rischi che si corre (potrebbe essere classificato come una “falsa partita IVA” dall’INPS).
Queste considerazioni sono comunque valide nel caso in cui il consulente debba essere impiegato per compiti di maggior responsabilità, per cui sia richiesta una professionalità superiore, rapportata ad una figura professionale di dipendente superiore e meglio remunerata, ecc.; ma soprattutto nel caso in cui il nostro consulente venga impiegato per un numero di giornate sensibilmente inferiori all’anno lavorativo intero o comunque per periodi superiori come estensione, ma con un impegno inferiore, ad es. per 100 giornate all’anno per due anni consecutivi.
È evidente che aumentando la flessibilità del lavoro ed il rischio da parte del collaboratore esterno la remunerazione oraria o giornaliera aumenterà di conseguenza.
In talune situazioni e realtà aziendali (gli esempi di società di informatica e studi di ingegneria ed architettura rimangono perfettamente pertinenti) gran parte delle ore impiegate dal personale sulla commessa sono svolte da personale esterno. In questo caso i costi delle risorse vanno attentamente calcolati perché le tariffe giornaliere sopra calcolate per il personale interno non possono essere confrontate con le tariffe dei consulenti esterni. Questo perché il personale interno usufruirà delle risorse aziendali, mentre i consulenti esterni impiegheranno solo una piccola parte di tali risorse, dunque mentre – in un’ottica di full costing o costo pieno – alcuni costi fissi di struttura possono essere imputati in modo omogeneo sia ai costi del personale dipendente, sia a quello dei consulenti esterni, mentre, invece, altri costi “indiretti” non sono da imputare alle risorse esterne.
Facciamo un esempio pratico per capirci meglio.
Ipotizziamo di avere una commessa con € 30.000 di costi di personale dipendente e € 40.000 di costi di personale esterno (consulenti), per un totale di € 70.000 di risorse umane a cui aggiungiamo € 5.000 di spese (trasferta e varie), ottenendo quindi 75.000 di costi diretti.
Adesso consideriamo di avere un coefficiente di spese generali sul totale dei costi aziendali pari al 20% (da aggiungere ai costi diretti), ma anche un 10% di costi legati all’infrastruttura informatica (Computer, rete, software e relative licenze, canoni di assistenza e manutenzione hardware e software, personale interno dedicato all’amministrazione del sistema, ecc.). Questi ultimi costi non vanno imputati alla quota parte di costi generata dai consulenti esterni, se questi lavorano con mezzi propri.
Dunque abbiamo: 20.000 x(1+0,30) + 30.000x(1+0,20) + 5000 x(1+0,30) =96.000 euro.