La situazione “attuale” delle imprese italiane… 7 anni fa!

Indicatori di performance aziednaliRiporto nel seguito uno stralcio del primo paragrafodel capitolo 1 del volume “Indicatori di performance aziendali” scritto nel 2005. Al link http://www.francoangeli.it/ricerca/Scheda_libro.aspx?id=13505 si può visualizzare, tramite Google Anteprima, il testo originale e verificare. 😉

I contenuti, salvo alcuni riferimenti datati al tempo, mi sembrano ancora, nuovamente, estremamente attuali.

 Materiale coperto da diritto d’autore

In Italia il panorama industriale e dei servizi è preoccupante, non si sa come, se e quando ci si risolleverà dall’attuale situazione di crisi.

Le cause del declino sono imputabili a diversi fattori.

Dal punto di vista della ricerca e dell’innovazione l’industria italiana è latitante. Fra le 100 aziende nel mondo che investono di più in ricerca e sviluppo, una sola è italiana (FIAT!). L’industria italiana non ha mai fondato un politecnico privato. In media investe in R&S meno della metà delle industrie europee e circa 1/3 di quelle USA.

Mi sia consentito un gioco di parole: se la progettazione e sviluppo non realizza prodotti innovativi e tecnologicamente più avanzati, la produzione non produce più nulla (oggi molti prodotti si realizzano in Cina!).

Occorre dare un peso relativo ai discorsi, diffusi attraverso i mass-media, di chi è al vertice delle organizzazioni che guidano e governano le imprese; spesso sono buoni propositi e belle parole, ma nei fatti la realtà è un’altra, ed è molto difficile da cambiare.

Le aziende oggi tendono a ridurre i costi tout court, senza pensare che abbattere i costi non è assolutamente una buona cosa se contemporaneamente si riducono anche competitività ed innovazione.

L’Herald Tribune del 19/04/2005 ha pubblicato uno studio dell’OCSE sui salari nei paesi industriali. Nel 1975 veniva attribuito ai dipendenti il 73 % dei ricavi industriali, nel 2003 il 64%. Da 30 anni la fetta della torta per i dipendenti continua a diminuire, quella per i manager e gli azionisti continua a crescere. Oggi la classe dirigente dell’industria italiana richiede solo che la gente lavori più in fretta e più a lungo, ma guadagnando meno.

Sorvoliamo poi sul fatto che la presunta “ricchezza” di molte imprese italiane è fondata su piccoli addebiti non giustificati ad una grande massa di persone (servizi telefonici, TV a pagamento, banche), vendita di prodotti e servizi “largamente inferiori” alle aspettative dell’ignaro cliente (bond argentini, titoli Parmalat, prodotti privi delle caratteristiche di sicurezza richieste dalla legge, alimenti contenenti sostanze pericolose, programmi software non conformi alle caratteristiche promesse, ecc.), situazioni di quasi monopolio, falsi in bilancio (ovvero “contabilità creativa”) e così via.

Altro aspetto da considerare è la dimensione media delle imprese italiane: pochissime grandi aziende, poche medie imprese, moltissime piccole imprese. Se non vogliamo per forza vedere il bicchiere “mezzo pieno” possiamo constatare che molte società italiane al di sotto della fatidica soglia dei 15 dipendenti vogliono assolutamente restare sotto tale dimensione per i vantaggi economici che ne derivano. Ciò comporta aziende meno organizzate – quindi meno efficienti, con personale poco qualificato (anche perché poco formato/addestrato), con l’utilizzo ridotto di tecnologie avanzate (in molte aziende internet e la posta elettronica sono entrati in questo millennio), scarse possibilità di effettuare investimenti di largo respiro e così via.

Circa le reali cause della situazione attuale – a mio modo di vedere – si potrebbe analizzare dieci punti:1)       Scarsi investimenti in ricerca e sviluppo ed innovazione. Puntare al ricavo di quest’anno con gli stessi prodotti dell’anno scorso, fra cinque anni “chi vivrà vedrà”.

2)       Ridotti investimenti nel personale che spesso non è adeguatamente preparato per esercitare il proprio ruolo, non è motivato a sufficienza a svolgere bene il lavoro assegnato, ovvero a perseguire obiettivi di qualità della prestazione piuttosto che di profitto.

3)       Scarsi investimenti nelle nuove tecnologie: i nuovi strumenti di ICT possono ridurre i tempi di lavoro, i costi e gli errori in maniera straordinaria, ma sono ancora poco sfruttati, sia perché molte – soprattutto piccole – imprese non ritengono utile acquistare determinate tecnologie, sia perché anche quando hanno a disposizione strumenti adeguati il personale non è in grado di utilizzarli proficuamente perché non è stato adeguatamente addestrato. La speranza sono le nuove generazioni: oggi è facile trovare un ragazzino di 12-13 anni che sa utilizzare molto meglio il computer di un impiegato di 50.

4)       Eccessivo focus nella riduzione dei costi di fornitura. Si cerca di realizzare il prodotto (o il servizio, o il componente) ad un costo più basso e quindi ci si accorge che c’è un fornitore che fa tutto quello che viene realizzato internamente ad un prezzo spesso inferiore, con il vantaggio di rendere la produzione più flessibile (è la fase dell’outsourcing). Poi si scopre che esistono altri fornitori che possono fare il prodotto ad un prezzo inferiore e che se si mettono in concorrenza tra loro si può ulteriormente risparmiare. Inevitabilmente il prodotto (o servizio) non sarà di qualità paragonabile a quello prodotto internamente, a forza di “tirare il collo ai fornitori” essi cercano di ridurre a loro volta i costi a discapito della qualità del prodotto e le carenze di qualità devono essere sopperite a valle della catena di fornitura; molto probabilmente sarà il cliente ad accorgersene e nel caso l’azienda produttrice sarà costretta ad accollarsi i costi di una riparazione in garanzia ed a subire comunque un danno di immagine sul mercato.

5)       Ricerca di nuovi clienti e mantenimento di quelli attuali basata più sulle parole che sui fatti. Si investe molto di più in pubblicità, campagne di marketing e corsi di vendita per agenti e rappresentanti piuttosto che per migliorare il prodotto al fine di accrescere la soddisfazione del cliente, per migliorare il servizio di assistenza post-vendita legato al prodotto, per accrescere la competenza tecnica sul prodotto del venditori.

6)       Competenza non adeguata del management. Molti direttori di aziende, così come i loro responsabili di funzione, non hanno le conoscenze e le capacità e – soprattutto – il tempo per organizzare al meglio l’impresa, in relazione al prodotto che progetta, realizza e vende, o al servizio che eroga. Oggi molti dirigenti “non lavorano veramente”, ovvero non creano valore per l’impresa, ma gestiscono solo delle persone ed i problemi che si presentano, decidono in base alle urgenze e non alle priorità più importanti, non definiscono e realizzano una vera strategia. In alcune medio-grandi aziende la causa di questo è da ricercarsi sia nei soci e nei consigli di amministrazione che hanno designato certi personaggi non solo in base alle reali capacità, sia nei candidati stessi (manager in pectore) che “si sono venduti bene”.

7)       La fretta di completare il lavoro (produzione o lavoro d’ufficio) è cattiva consigliera. “Presto e bene non vanno d’accordo” diceva un’altra massima nota: oggi si privilegia il “presto” (la velocità) al “bene” (la qualità), credendo di essere più efficienti. In realtà si commettono solo più errori, si peggiora il lavoro degli altri e ci si compromette la credibilità con i clienti un po’ più attenti. Altra causa originaria della fretta è sicuramente il sottodimensionamento dell’organico.

8)       Piccolo è bello, ma non è bravo. Molte microimprese sono nate da persone che hanno deciso di smettere di essere dipendenti per diventare imprenditori senza averne le capacità, i mezzi per formarsi adeguatamente e le competenze manageriali necessarie. Molte imprese familiari hanno da poco vissuto, o stanno attraversando, il cambio generazionale: se il vecchio imprenditore aveva le caratteristiche adeguate per condurre al successo un’impresa 40-50 anni fa ora il contesto è mutato, è cambiato il mercato, ci sono nuovi metodi di lavoro, nuove tecnologie alle quali il giovane imprenditore deve adeguarsi e spesso non ha le carte giuste per farlo.

9)       Resistenza al cambiamento. Molte aziende, soprattutto molti imprenditori, non vogliono cambiare al fine di migliorare le prestazioni della propria organizzazione, per svariati motivi: insicurezza, perdita di potere dovuta a perdita di conoscenze, età, paura delle novità.

10)    Incoerenza ed inadeguatezza dei fatti con le parole. Molte aziende definiscono mission da inserire nelle presentazioni o nel sito internet, poi però nel concreto non sempre pianificano strategie adeguate, definiscono le politiche per il perseguimento degli obiettivi definiti, si attivano per la misurazione dei risultati e per l’applicazione degli opportuni correttivi.

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Infine citiamo le colpe della Pubblica Amministrazione, che con il sistema degli appalti pubblici al massimo ribasso (o quasi) non fa altro che alimentare quelle organizzazioni che sfruttano il lavoro nero, che eludono gli obblighi di legge e – anche attraverso altri trucchi – riescono a proporre servizi scadenti a costi ridottissimi. Il mondo delle costruzioni purtroppo è schiavo di questo sistema e purtroppo i controlli sono rari ed inefficaci per garantire una competizione equa.