Perché non c’è ripresa?
O forse sarebbe meglio dire perché non c’è una crescita costante e duratura, almeno in Italia?
Approfittando di quanto sentito al Meeting ACEF 2014 (“Insieme per la ripresa”) ed esaminando i dati dello scenario macroeconomico mondiale ed europeo basato su dati oggettivi, ritengo opportuno fare alcune considerazioni che potrebbero aiutarci a capire perché la tanto attesa ripresa per ora non c’è, anzi.
A livello mondiale si è in espansione, ma il dato aggregato è valutato con incertezza sul futuro e scarso ottimismo per molteplici fattori. I servizi sono in maggiore espansione rispetto al settore manifatturiero che in diverse zone del globo è in crisi e, soprattutto, si rilevano dati diversificati nelle diverse aree del globo.
Nell’Eurozona il PIL generale è in crescita, ma la debolezza della domanda, la scarsa dinamica degli investimenti e gli indicatori negativi di alcuni Paesi non fanno che accrescere il clima di incertezza e diminuire la fiducia delle imprese.
In particolare la ridotta crescita degli investimenti, soprattutto in Italia – in contraddizione con i tassi di interesse minimi – non favorisce certo la ripresa economica.
La crescita economica dell’Area Euro è del 1,1%, contro 3,2% degli USA e il 3,7% valore medio dell’intero Pianeta, ben oltre si collocano Cina e India. Dunque i bassi investimenti frenano la crescita dei Paesi emergenti e non solo di quelli.
La domanda delle materie prime è in calo e l’offerta si sta adeguando con un lieve calo dei prezzi delle stesse.
Negli Stati Uniti, dove la crescita è comunque sostenuta da investimenti al rialzo e consumi in crescita, attorno al 3%, mentre il tasso di disoccupazione si aggirerà fra il 5% e il 6% anche il prossimo anno, meno della metà del valore Italiano!
Nell’area Euro le stime di crescita sono invece al ribasso, comunque con dati molto differenziati fra i vari Paesi. Se le previsioni per il prossimo anno sono di moderata crescita per Germania e Spagna (dove hanno tenuto le esportazioni), in altri Paesi, come Francia e soprattutto Italia (dove le esportazioni sono stagnanti), la crescita sarà rasente lo zero virgola. Nel complesso, comunque, sembra essersi attenuata la spinta dalla domanda estera, non solo a causa delle tensioni geopolitiche. In ogni caso l’export non può sorreggere la ripresa economica.
Tra il 2000 e il 2013 gli Stati Uniti sono cresciuti del 25% l’Italia nulla! Tutto questo sebbene siano disponibili finanziamenti a tassi sempre più agevoli.
La perdita dell’occupazione verificatasi nell’impresa manifatturiera in Italia è inferiore (e quindi migliore) a molti Paesi, anche se superiore alla Germania (2,8% contro 1,9%). Dal 2002 si sono persi il 10% degli occupati nell’industria, oltre ai Cassaintegrati: siamo dietro la Germania, ma davanti ad altri Paesi europei. La perdita di occupazione del manifatturiero è partita prima della crisi ed in Italia abbiamo resistito a lungo, prima di crollare negli ultimi anni, dal 2008 ad oggi.
Nell’ultimo decennio la struttura dimensionale delle imprese industriali in Europa è pressoché invariata e, come si sa, le dimensioni delle nostre imprese sono decisamente inferiori a quelle medie delle imprese estere.
In questa fase si creano catene internazionali del valore (global value chain) in cui non si riesce più a capire da dove provengono i prodotti (ad es. caso iPad). In questo contesto le barriere doganali vincolerebbero troppo lo sviluppo del Paese. La crescita generale dell’export porta anche ad una crescita dell’import.
In Italia, mentre il settore costruzioni è in costante decrescita, cresce invece il settore alimentare. Un settore forte nell’export è la meccanica, nel quale come saldo commerciale import-export siamo secondi solo alla Germania. In generale l’export di alcuni settori presenta buoni margini di miglioramento se si pensa che le imprese straniere hanno percentuali di esportazioni superiori alle nostre. Del resto le imprese straniere sono più grandi delle nostre e quindi sono più orientate all’esportazione.
L’internazionalizzazione dell”Italia (intesa come investimenti all’estero, dipendenti di imprese italiane all’estero) è modesta rispetto ad altri Paesi UE.
La capacità di attirare capitali stranieri nel nostro Paese è altresì molto bassa (la percentuale di dipendenti da impresa straniera è del 10% circa sul totale).
Nelle imprese industriali c’è sempre un maggior tasso di personale qualificato, si va verso un modello meno basato sui costi e più sulla qualità, ove c’è meno concorrenza, ma per fare ciò bisogna disporre di “personale di qualità”. Sotto questo aspetto si denotano carenze di formazione del personale nel nostro Paese.
In questi ultimi anni (2008-2012) si nota una grande discrepanza fra la crescita delle imprese migliori e la decrescita delle imprese peggiori: anche nella crisi ci sono molte imprese che ce la fanno ad andare bene!
Le imprese partecipate estere vanno meglio, anche chi esporta ha risultati migliori, chi ha marchi e brevetti, chi ha certificazioni di qualità ed ambientale (se comunicata bene al cliente) crescono di più in volume d’affari rispetto alle altre imprese.
A livello di profitti le tendenze sono analoghe, anche se sembra che lavorare all’estero riduca l’EBITDA.
In conclusione le strategie di successo possono essere meglio perseguite se le imprese sono più grandi, eventualmente riunite in reti di imprese, se dispongono di personale qualificato ed investono in innovazione tecnologica.
Molto dipende anche dai manager e dai consulenti che, insieme agli imprenditori, devono dedicarsi sempre più ad attività strategiche rispetto al day by day.
In Italia, inoltre, alcune delle iniziative di riforme intraprese hanno provocato danni collaterali, inevitabili se le risorse sono prodotte distogliendole da altri fronti.
Per cercare di uscire dalla crisi occorre certamente più coesione e disponibilità a sacrifici.
Il problema dell’occupazione giovanile di profili di altro livello usciti dall’Università è grave, anche perché molti giovani laureati trovano più attrattiva all’estero, sia come carriera “aziendale”, sia come carriera universitaria e di ricerca.
Sicuramente è necessario intervenire in tempi rapidi per interrompere la spirale diabolica che in questi anni, partendo dal calo del PIL finisce nel calo dei consumi. A fronte di cambiamenti strutturali necessari, che richiedono la generazione di migliore efficienza, occorre gestirne gli effetti (ad es. i risparmi della PA si ripercuotono in riduzione dei ricavi da parte dei fornitori della PA stessa e in aumento della disoccupazione dovuta a esuberi).
Del resto non sono possibili svalutazioni competitive di un tempo e la liquidità esistente non trova investimenti remunerativi, infine l’export, seppur elevato, non può bastare a risollevarci.
Ma chi, invece, ha avuto successo in quest’inizio secolo?
Negli ultimi anni le nuove tecnologie hanno generato fenomeni devastanti (utilizzo di smartphone e tablet, apps, e-book, fotocamere digitali, musica digitale, cloud computing, stampa 3D, informazioni digitali vs formato cartaceo e così via) che sono stati estremamente proficui per chi li ha sfruttati (vedi caso whatsapp) e negativi per chi li ha subiti senza essere in grado di reagire.
Ma non solo le start-up innovative che hanno avuto il coraggio di investire su prodotti innovativi possono ottenere ottimi risultati, anche le PMI “tradizionali” possono (devono) sfruttare le nuove tecnologie per migliorare l’efficienza dei loro processi manifatturieri o di servizio e proporsi in modo diverso sul mercato.
Qual è la ricetta per tornare a crescere? Occorre senz’altro utilizzare il buon senso. Bisogna operare in maniera diversa, non necessariamente mettersi a produrre aggeggi tecnologici nuovi o app innovative, ma continuare a produrre le stesse cose o erogare i medesimi servizi con modalità diverse sfruttando le nuove tecnologie per migliorare la propria efficienza nei processi interni, i servizi accessori erogati al cliente e comunicare meglio quello che si fa e si è.
I manager, dunque, devono ragionare sul fronte dell’innovazione, che richiede competenze diverse rispetto al passato.
Tradizionalmente le imprese hanno necessità di consulenti per certificazioni, brevetti, internazionalizzazione, sistemi informativi, ecc.; ora – a maggior ragione – occorre che gli imprenditori facciano un bagno di umiltà e si approvvigionino delle conoscenze e competenze in genere necessarie per cambiare la propria azienda e svilupparla nel prossimo decennio.